Sulle dinamiche emotive del management organizzativo

 

Coraggio: una parola che ascoltiamo di rado nella vita di tutti i giorni. Eppure – come ci ricorda Aristotele – “il coraggio è la prima delle virtù umane perché rende possibili tutte le altre”. Ma cosa c’entra con le dinamiche che legano aziende e lavoratori, leader e team?

 

Quando oggi si parla di management organizzativo è quasi scontato incappare in temi quali salute, benessere, soft skills, agile, work-life balance, felicità…Sì, addirittura felicità. Parole altisonanti, dunque, attorno alle quali proliferano tante professioni emergenti e altrettanti corsi, master e percorsi di coaching.

 

Come mai allora mi capita così spesso di ascoltare racconti di persone che, pur dedite al proprio lavoro, hanno lentamente perso le motivazioni, l’entusiasmo e la gioia per quel lavoro che prima amavano? Perché sempre più spesso nelle aziende in cui entro come consulente ascolto storie di delusione, sofferenza, disillusione e fallimento personale? Perché incontro persone svuotate dei propri sogni di realizzazione, per le quali il lavoro è diventato ormai solo un dovere?

 

È piuttosto complesso comprendere e gestire le dinamiche che intercorrono tra individuo e organizzazione, dinamiche che spesso non sono governate, ma semplicemente date per scontate. Per questo ricordo ai leader e ai manager che incontro che a volte il lavoro assume forme che possono coincidere con l’essenza stessa della vita. Il rapporto individuo-lavoro si fonda infatti sul desiderio di accrescere la propria sicurezza interna e fortificare l’autostima, la fiducia in sé stessi e le relazioni interpersonali; come se produrre, fare, creare qualcosa fosse utile a proteggerci dai giudizi degli altri e dalle insicurezze legate al futuro. Per questo tendiamo a proiettare tutte le nostre aspettative sull’organizzazione che ci accoglie: perché la scegliamo inconsciamente come colei che trasformerà un bisogno in un desiderio soddisfatto.

 

Si arriva in azienda carichi di aspettative che dipendono dal significato che attribuiamo al lavoro. Per realizzarle si è disposti a investire molto, sia in termini di tempo che di emozioni. Non mettiamo mai davvero in conto chi o cosa troveremo dall’altra parte: un’organizzazione da conoscere, con le sue procedure, un organigramma, obiettivi talvolta sfidanti e tempi ristretti per una quantità immensa di attività; ci sono colleghi coi quali interagire e a volte competere, ci sono conflitti e incomprensioni da gestire e c’è, su tutto, una tirannica mancanza di tempo per un costruttivo scambio individuale. Impera il multitasking, ma non c’è nessuno che si accorga della nostra crescita; sono scarse le iniziative formative e c’è poca attenzione al clima e alla cultura interna. Nella quale, però, siamo immersi otto ore al giorno (se non di più), 5 giorni su 7, per… quanti anni?

 

Le emozioni sono informazioni determinanti su noi stessi e sugli altri, forniscono indicazioni precise sul comportamento da tenere e sulle decisioni da prendere. I leader capaci di considerare in modo appropriato le informazioni emotive durante i processi decisionali saranno anche in grado di sfruttarne il potenziale strategico, influenzando positivamente sia i collaboratori sia la produttività aziendale.

 

Perché col passare del tempo le emozioni spesso defluiscono nella sfera della frustrazione e della sofferenza e causano demotivazione e un abbassamento della qualità delle performance? Accade soprattutto quando si inizia ad avvertire una sorta di infelicità, quando ci si sente provati fisicamente, sopraffatti e inadeguati alle richieste del lavoro, ansiosi e insoddisfatti. Ma non ci si può sottrarre a questo flusso, perché significherebbe fallire nell’impegno con sé stessi, ed essere giudicati dei perdenti; significherebbe però anche approfondire il dialogo con sé stessi, sviluppare una maggiore consapevolezza e, soprattutto, compiere delle scelte. E questo ci costa fatica. Piuttosto che guardare in faccia la realtà e agire di conseguenza assumendocene le responsabilità, spesso preferiamo continuare a vivere in una dimensione traumatica.

 

Autoconsapevolezza, una forte motivazione, e azioni concrete sono gli elementi su cui costruire la resilienza, quella capacità fondamentale che ci permette di essere flessibili, di identificare e risolvere i problemi, di accettare i feedback critici degli altri, di modificare abitudini disfunzionali e di accettare il cambiamento.  Ma più di tutto, come ci ricorda Aristotele, alla base della resilienza c’è il coraggio: è questa virtù che ci permette di identificare un obiettivo, di agire per raggiungerlo e di sopportare quel vissuto di paura che fa inevitabilmente parte del processo.