Il gioco di mettersi in gioco

 

Dopo questo articolo, torno sullo psicodramma per esplorare, dopo le potenzialità della verbalizzazione, quelle della rappresentazione drammatica.

 

Nell’articolo precedente abbiamo visto come lo psicodramma sia il luogo nel quale sembra assumere carattere di visibilità il mondo interno dei partecipanti. Se questo è vero per il piano dell’espressione verbale, è ancor più vero se adesso spostiamo l’attenzione sulle funzioni meta-rappresentative del gioco.

 

Nel suo costruirsi e nel suo svolgersi, il gioco investe i membri del gruppo di identificazioni proiettive, fornendo al gruppo stimoli per una elaborazione condivisa. Al centro del processo terapeutico troviamo, dunque, il gioco come veicolo in grado di facilitare l’espressione degli affetti e che permette al qui e ora di attingere continuamente a un altrove e ad un allora. Attenzione, però: il fine del gioco non è mai quello di trovare una liberazione dei propri conflitti attraverso la catarsi delle emozioni, così come non è quello di un puro piacere estetico.

 

Il fine del gioco è quello di fornirci una possibilità per aprirci alla parte sconosciuta di noi, che emerge infine a più diretto contatto col corpo e con le emozioni. Considerato in questa prospettiva, il gioco opera all’interno del gruppo un vero e proprio salto di qualità: infatti, mettendo l’accento sul corpo, la drammatizzazione neutralizza gli atteggiamenti più critici ed intellettualistici. Agendo, emergono inibizioni e paure; le difese traballano e la rappresentazione drammatica offre al protagonista del gioco la possibilità di interrogare determinati momenti della propria esperienza; si riattiva la tendenza a sviluppare quelle parti di sé rimaste come cristallizzate, immobili e opache. Le rappresentazioni di se stessi e delle relazioni con gli altri si liberano della rigidità di certi schemi e assumono un significato nuovo. Diventa in tal modo possibile identificarsi con gli altri mantenendo integro il senso della propria identità.

 

L’importanza della rappresentazione sta dunque nella possibilità di mettere maggiormente a fuoco il problema del soggetto. Il protagonista, del resto, preso dalla rappresentazione scenica e dal discorso diretto, difficilmente potrà organizzare le proprie difese come accade invece durante il racconto. Al contrario, i pensieri latenti avranno campo libero per organizzare il gioco in modo molto simile a un sogno.

Vediamo un esempio tratto dalla mia esperienza. In un gruppo che da qualche seduta stava lavorando su tematiche genitoriali un partecipante racconta un sogno in cui appare in compagnia di una donna che non è sua moglie. La relazione con la donna è chiaramente molto intima ed illegittima; ma le loro effusioni vengono bruscamente interrotte dall’irruzione di un gruppo di turisti, che si fermano ad osservarli. Il paziente che sogna sta indubbiamente affrontando un conflitto tra le spinte trasgressive sottese alla relazione sentimentale clandestina e la paura, se si lascia andare a questi impulsi, di perdere il proprio figlio.

Il sogno viene messo in gioco: una coppia viene messa al centro e gli altri partecipanti rappresentano il gruppo di turisti. Durante il gioco, un partecipante che ha il ruolo di turista arrossisce in modo palese, richiamando su di sé l’attenzione di tutti. Dopo il gioco, ricorderà un episodio della propria infanzia, quando sorprese la madre con un uomo a lui sconosciuto. Ma il recupero del ricordo rimosso non è l’effetto più importante del gioco psicodrammatico: esso risiede nella nuova possibilità che è data al partecipante di integrare nel sé emozioni così violente legate a quell’evento traumatico.